"Lumen e Lux", Pino Mantovani 2014
Da Silvio Fuso e Matteo Piccolo a Maria Fratelli e Giovanni Romano, tutti coloro che si sono occupati della fotografia di Angelo Garoglio dedicata alla scultura di Medardo Rosso (esperienza iniziata nel
2008 per la Civica d’Arte moderna di Milano, proseguita nel ‘12 con “Disegni di luce” a Cà Pesaro di Venezia e lungi dal concludersi: a questa mostra torinese, un’ altra seguirà alla Oddi Ricci di Piacenza) concordano sul fatto che, nel caso, la fotografia instaura con la scultura un rapporto non di illustrazione, memoria e documentazione, ma di aperta corrispondenza poetica e di approfondimento analitico, a patto si intenda non come didascalia esplicativa ma come provocazione con nuovi strumenti e rinnovata sensibilità per evidenziare ulteriori caratteri significati valori. Proprio Medardo Rosso, del resto, aveva inteso la lettura dell’arte come compromesso e compromettente rilancio. Ne sono prova il suo curioso collezionismo che mescola originali e copie, copie da copie e “copie originali”; la ripetizione in varianti delle opere proprie, mai di meccanico ricalco invece ogni volta affidate ad una interpretazione criticamente attiva e ad una autografia perfino aggressiva; l’uso del mezzo fotografico per orientare relazionare sollecitare la forma plasticamente elaborata, tutta da (ri)vivere oltre l’enunciato materiale: essendo l’arte, per lui, corrente vitale, perpetuarsi ed espandersi dell’emozione attraverso l’opera.
Vorre affrontare il simpatetico conflitto fra i due artisti.
Al centro della mostra alla Galleria Don Chisciotte di Torino sta Enfant Juif, in una versione ignota agli estensori del catalogo generale, ma indubitabilmente autografa essendo accompagnata da una lettera affettuosa di Medardo Rosso all’amica torinese Wanda Celli Artom (cfr. scheda pag. 36). Nella ridotta iconografia dello scultore, il tema dell’enfant è particolarmente significativo, e collegato alle figure emozionanti del sentimento espresso senza riparo - in particolare la malinconia e il riso, dal sorriso alla risata liberatoria - capaci di espandersi come un’ onda al volto al corpo all’ambiente,
e altrettanto misteriosamente svanire (bene lo intenderanno i Futuristi, sempre materiali però, e già ci aveva meditato sottilmente Leonardo, con i suoi eredi prossimi e remoti). D’altra parte - ma forse è lo stesso - non posso esimermi dal supporre che l’enfant (il bimbo, il birichino, la bambina, il puer, il gavroche, il ragazzo) rappresenti il primo affioramento della forma dal magma indifferenziato, dunque l’ inizio, non della cosa bensì della immagine e della vita, della vita in immagine, della immagine come vita, puro slancio vitale. Se questo vale per Medardo, tra Impressionismo e Simbolismo (fuori storia, tra impressione, qui e ora, e simbolo, originario universale), sullo stesso punto, mi pare, insistono gli scatti di Garoglio, commosso nemmen tanto dalla delicatezza dei tratti, dalla tenerezza innocente dell’espressione (del resto, già motivo di sospetto per lo scultore), quanto dalla specie per così dire tellurica della manifestazione, che, anche dopo il fragile istantaneo assestamento, continua ad essere minacciata dalle stesse forze che l’hanno resa possibile, ma non irreversibile. Così l’interpretazione del volto infantile da parte di Angelo, che trova in Medardo tutte le evidenze giustificative (a sceglierli, in area di romanticismo tedesco, non ci sarebbero stati nomidi più suggestiva efficacia), ha una marcata componente drammatica.
Semmai il tono è differente: morbido e fluido nella modellazione/modulazione plastica, e non meno nella ripresa fotografica del primo autore, fino al limite della sfocatura o dell’addensamento fantomatico; accidentata e discontinua, scultorea, l’articolazione luminosa nel secondo autore, sia quando punti sulla messa a fuoco estrema sia quando azzardi un leggero effetto di mosso (mai generico, però). Differente il colore: biondo e trasparente come compete all’amata cera, in Rosso (capace di evocare tutta la gamma cromatica); giocato sullo scarto tra il bianco e il nero, ai quali si commisura lo scalare dei grigi, nei fotogrammi di Garoglio (che, quando eccezionalmente utilizza il colore - come in una serie fotografica dedicata al Puer milanese - sceglie un bruno affocato o un ocra caldo, forse indotto dalla suggestione di una cromaticamente indecifrabile colata lavica più che dall’intenzione di imitare le cera o le patine su bronzi e gessi; ma un amico scultore mi fa notare quanta parte abbia il calore nel modellare la cera e la provocazione chimico/fisica, alchemica, nelle patine). Differente il disegno: che in Rosso mai definisce separatrici, profili chiari, figure chiuse; mentre in Garoglio incide, taglia, insiste su accidenti che dalla superficie rivelano complicazioni profonde e molteplicità di piani (eppure il fotografo registra l’esistente, si dice). Differente la distanza: in Rosso per così dire remota, trasognata, tutta presa nello spessore indefinito dell’atmosfera materiale ed emozionale; in Garoglio ravvicinatissima, netta fino alla crudezza (comunque vision non vue, per entrambi). Differente il coinvolgimento: se il modellatore attraverso il tatto esercita direttamente la propria sensibilità, in tempo reale registrata e trasmessa dalla materia all’ occhio sintetico prima dell’artista poi dell’osservatore; il fotografo interpone fra sé e l’oggetto un filtro: infatti l’occhio meccanico, mentre tiene a distanza l’occhio naturale, indaga la materia, riportando nei confini della ripresa la totalità dello spazio. L’obiettivo aggredisce la figura, che risponde saturando il campo: nulla che importi avviene fuori, o meglio tutto quello che avviene fuori vale solo in quanto è risucchiato dentro; nel particolare centrato perde senso la cosiddetta misura oggettiva, tanto che al frammento, al particolare spetta di rappresentare efficacemente, dentro i propri limiti, l’illimite del tutto.
Ho insistito, con qualche precisazione, sulle differenze, perché è proprio la consapevolezza delle differenze che genera e sostiene il dialogo fra i due artisti: come è la discontinuità che sostiene la continuità dell’opera viva. Non mi chiedo se la lettura fotografica di Garoglio sia aderente alle intenzioni dello scultore esplicitate dall’ oggetto plastico, oltre che dai fotogrammi originali e dalle dichiarazioni scritte o verbali dello stesso, ma se il modello resista alle provocazioni della interpretazione e se l’interpretazione regga il confronto con l’immagine di riferimento. La tensione sarà l’oggetto dell’ indagine ulteriore, che a sua volta potrà arricchire di senso le due parti in generoso contrasto. La tensione è riconoscibile soprattutto nell’ uso differente/convergente della luce (la femminile, in quanto generatrice, “massima energia”; per Rosso come per Garoglio).
Nei suoi enfants, Medardo Rosso dà sostanza alla luce, utilizzando la “natura” della cera: ma non è la natura della cera a imporsi, invece l’ artificio della modellazione che libera dalla cera (attraverso la cera) le potenzialità della luce, come il taglio esalta la lucentezza del diamante o il moto sollecita il lucore cangiante della seta. La fotografia s’incunea proprio dove il miracolo accade, in un certo senso lo rivela usando come chiavistello l’evidenza della quantità e la specie degli accidenti che la istantanea/sfinita elaborazione ha messo in opera per eccitare le varianze della luce. La fotografia prosegue, dunque, il processo di superamento - cancellazione - della materia nella luce. Mentre però Medardo nelle fotografie sue (da lui scattate o controllate) interviene sull’ immagine dissolvendo spessore e peso nella luce (l’invasiva lux, anima mundi: accecante nell’ Enfant au soleil, che può rovesciarsi in un nero controluce, o ridotta nell’ Enfant Juif alle affascinanti gradazioni dell’ombra, dello “stare in ombra” consigliato dall’autore all’amica Wanda nella lettera di accompagnamento del “suo ragazzo”); Angelo sottolinea la natura fantomatica dell’ immagine “esagerando” l’impatto luminoso sulla accidentata consistenza delle superfici, puntando sul lumen, “l’energia irradiata sui corpi che la riflettono” (Gino Gorza), per raggiungere una cosità per così dire assoluta, sostantivale in ogni suo aspetto, per ciò stesso “innaturale”.
Sovviene che le due varianti sono previste dall’amato Baudelaire (citato a memoria da Medardo Rosso, raggiunto da A. Garoglio attraverso Yves Bonnefoy), il quale indica la vaporizzazione e la concentrazione come due strategie altrettanto efficaci che la modernità - una certa modernità - innesca per raggiungere lo stesso obbiettivo: la nullificazione del “reale”. L’ombra e la luce sono gli strumenti specialmente efficaci per mettere in crisi l’evidenza elementare che positivismi e realismi hanno alzato a barriera per reggere, in nome della chiarezza, l’attacco dell’ emozione e la paura del caos.